L’uomo dal volto provato

Era come un loop che si ripeteva ogni giorno. Ogni giorno alle sette entravo in quel bar e lo trovavo lì, sempre, non aveva mai pietà di me, non entrava mai dopo, non ero mai preparato a lui. L’uomo dal volto provato era lì a bere il suo cappuccino, coi suoi vestiti anonimi: “lo fanno buono in quel bar il cappuccino”. Banalità. La sensazione era sempre la stessa, disgusto. Ero affamato dopo la solita notte faticosa, ma lo stomaco si rifiutava, io lo violentavo. Deglutivo con fatica quella ciambella glassata, poi l’acqua e il caffè, solo per abitudine. Aspettavo che uscisse, ma non usciva mai, forse c’è sempre stato. Forse era la sintesi di tutto ciò che non vedo, che non tollero, che mi deprime. Quai capelli irti come spine, bianchi, grigi, non curati, sono forse ciò che vedo ogni notte, sono ogni singolo incubo, ogni singola caduta nel vuoto. L’anonimato dei giorni, della rinuncia ai sogni, del tempo che passa come acqua sporca di fango. I solchi su quel volto pensano all’amore, quello che non c’è stato, quello desiderato, quello che siamo incapaci di provare. L’uomo dal volto provato mi ricordava quell’uomo lontano. Quell’uomo dal quale sono uscito e dentro il quale non sono mai riuscito a entrare. 


La pallina bianca

Si chiama Massimo, i suoi amici lo chiamano Massi, ma noi lo chiameremo Massimo. Massimo ogni giorno è minimo. Ogni giorno indossa una camicia, un maglioncino di un colore anonimo, dei pantaloni beige e le scarpe Hogan. Massimo ci accoglie finto, ma gentile, sono con mia mamma e questo già mi crea un disagio. Gli diciamo che vogliamo acquistare un’automobile, ci dice che siamo nel posto giusto, ma non sarà così. Massimo è grasso più di quanto possa sembrare, soprattutto intorno alla vita, ha le gambe a X. Ci dice che il suo gruppo ha tre marchi, che fanno tre macchine di quella categoria, uguali, ma che costano diverso e che sono vendute in luoghi diversi. Ci fa vedere quella che ci interessa, si avvicina, apre lo sportello e chiude lo sportello esclamando “avete visto questo sportello, come si chiude”. Sorrido compiaciuto per dimostrargli che il fatto che lo sportello si chiuda mi rassicura. Ci dimostra anche che dietro ci si può stare a sedere, anche questo mi rassicura. Ci dice che è un valore aggiunto, perché lui è uno e ottanta, ma non è vero. Inizio a percepire l’ingenuità di mia mamma, quella che un pò mi ha rovinato la vita, e sento che inizia ad essere affascinata da Massimo, quindi mi distraggo, mi siedo sul sedile del guidatore e li lascio parlare. Ci propone una prova, non con la macchina che vorremo comprare, ma con una delle altre due delle altre due marche, “hanno la stessa scocca” mi dice. È verde acido, guida mia mamma. È impacciata, intimorita, così penso a tutte le volte che lo è stata nella vita, a tutte le volte che si è sentita fuori luogo, tutte le volte che ha provato quel desiderio che spesso non riconosciamo, come la voglia di sparire. La presenza del venditore di automobile sul sedile posteriore sembra svanire col passare del tempo. Lo sento essere sempre meno sostanza, fino a quando improvvisamente esclama “sentito che sterzo signora!!” Torniamo in filiale, ci sediamo alla scrivania, si toglie l’orologio ed inizia a parlare del nulla. Mentre lo fa guarda mia mamma, che mi sembra diventare più piccola, fino a sembrare bambina, è seduta e non tocca in terra con i piedi. Massimo continua a parlare del nulla, mi sembra deforme, agita le mani in maniera confusa come se stesse affogando. Alza un braccio e vedo che ha un buco nella maglia sotto l’ascella. Provo uno strano senso di compassione. Parla ancora del nulla, sono trenta minuti che parla del nulla. Gli chiedo quanto costa la macchina perché noi vorremo valutare l’acquisto ed è importante sapere quanto costa. Agita dei fogli, tre mi pare. Li muove come quei truffatori da marciapiede che ti vogliono far credere che troverai la pallina bianca sotto la campana. Riprovo a fagli capire che noi eravamo lì perché avevamo intenzione di comprare un’automobile, ma non ci riesco. Non ci riesco perché lui non vuole venderci una automobile, ci vuole vendere la vita che sta vivendo, le falsità che dice e ascolta ogni giorno, il tentativo di convincerci che quello che sta dicendo è reale. Improvvisamente da sotto il foglio più sommerso, ci fa intravedere la pallina, era bianca. La macchina in esposizione era rossa, quella che abbiamo provato era verde acido. 


A Chiesina Uzzanese

Il desiderio si materializza all’insaputa. Vinicio dorme male il pomeriggio, il suo corpo è in tensione perenne, come se non avesse possibilità di rilascio, non ha i sensi distesi, tanti piccoli pugnali contratti che lavorano sempre in eterno, smettono quando vogliono, hanno una propria vita. È in costante ricerca d’amore. Una sensazione pneumatica che gli scuote costantemente le interiora, uscendo solamente sotto forma di dolere, delusioni e rifiuti. 

Quelle persone girano intorno in una vecchia abbazia, un giro con due scale. Due ragazzine si fermano sovrapposte. Quella sopra ha un perizoma leopardato, dice che è un bel ragazzo. Scappano, Vinicio le rincorre, vanno veloce, hanno un triciclo, ma non riesce a vederlo. Si affanna, ma non le raggiunge, svaniscono tra la gente che sembra felice. Nel contratto questo non c’era scritto, l’angoscia non era prevista, lo contesta, ma la legge non ha pietà della purezza.

È stato cresciuto educatamente, per questo gli è stata donata una bicicletta. Ha un completino aderente con lo sponsor bianco e rosso, si sente un ciclista, gli manca la strada, ma la percorre, cercando di andare diretto. Arriva a Chiesina Uzzanese con grande stupore, si sento vicino a casa, anche se è disabitato. Tutti quelli della sua generazione hanno avuto in dono una bicicletta senza strada. È cresciuto in anni d’eccellenze, influenzato dalle forme estetiche e dalla bellezza. Gli appassionati di bellezza prendono sempre l’ascensore, ma non sanno mai quale piano scegliere, ALT. La bellezza sta negli attimi, il resto è banalità. Non si integra. Ogni giorno cerca questi attimi, ma non ce ne sono mai abbastanza, si dispera, cerca altri luoghi, spera che ci siano, l’incertezza di trovare farfalle che escono dai bozzoli, invece dei soliti fondi di bottiglia. È molto dimagrito, il manto è lo stesso, ma teme sempre che ci sia qualcosa in agguato, desidera tornare quel bambino per ricominciare da capo, cerca di dormire fetale, ma non è il modo giusto perché ha i dolori alle spalle. Le utilizza molto le spalle, cerca sempre di chiudercisi dentro. Cerca sempre di capire, di andare oltre, cerca sempre di farsi un selfie con i pugili famosi.

Gli stanno cantando “come una scimmia, sei solo come una scimmia”, lui torna indietro furioso, ma non torna indietro furioso. Il selfie non gli viene, non riesce a tenere in mano il cellulare, gli scivola e non c’è niente dentro, solo immagini confuse. Il dito va per conto suo, la parte del cervello che dovrebbe controllare i suoi movimenti gli parla con fatica. Non li fa mai i selfie, li odia, odia tutta la gente che se li fa riempiendo il mondo di labbri a sfintere. Non trova più la bicicletta, gliel’hanno rubata, forse dovrò rimanere in eterno dov’è adesso, a Chiesina Uzzanese.


La ragazza Open Job

Avevo un appuntamento con la ragazza Open Job, ma non mi aspettava. Gonfiabile e affannosa, al telefono insegue chissà cosa, forse niente. Mi sembrava inanimata. Un’altra defilata coi capelli rasati mi guarda, anzi non mi guarda, guarda il monitor del computer. Indossa stivali alti, grigi, lucidi. La immagino mentre usa uno di quei falli di plastica con la palla in cima che vibra. 

Non riesco ad incrociare sguardi, ci provo, magari un sorriso, un cenno, ma le ragazze Open Job non danno segni di vita. Soffocate dalle speranze delle persone, dai sogni infranti di chi pretende solamente la vita. Mi danno un test inutile da compilare. Lo compilo, sbaglio, mi deprimo.  

Continuo a non incrociare sguardi, ci provo, magari un sorriso, un cenno, ma le ragazze Open Job non danno segni di vita, Una entra ed esce da un ufficio, fa domande e rientra, fa domande  e rientra, fa domande e rientra, fa domande e rientra, fa domande e rientra, fa domande e rientra, fa domande e rientra. 

Continuo a non incrociare sguardi, ci provo, magari un sorriso, un cenno, ma le ragazze Open Job non danno segni di vita. L’azienda eroga servizi idrici. Incalzo con le domande, ma è vaga, capisco che è un segreto, ha paura che lo carpisca, che vada direttamente alla fonte, non si fida. Non si fida di suo marito, sa di essere gonfiabile, sa che lui la tradirà con una che fa cose che lei non è capace di fare, che non sa fare. Lei lo accetterà, è una ragazza Open Job. 

Continuo a non incrociare sguardi, ci provo, magari un sorriso, un cenno, ma le ragazze Open Job non danno segni di vita, sembrano morte. Ecco il test. Lo gireranno all’azienda e mi faranno sapere. 

Continuo a non incrociare sguardi, ci provo, magari un sorriso, un cenno, ma le ragazze Open Job non danno segni di vita. Non capisco se abbiamo finito, la ragazza OpenJob non mi dice niente. Mi metto a pensare che lì, quando ero bambino, c’era un parrucchiere, erano anni belli. Ricordo che quando ci passavo rallentavo per guardare tutto quello che accadeva dentro. Potevi vedere le vecchie bellissime poltrone, i ciuffi che saltavano, le persone che aspettavano, parlavano e leggevano per l’ennesima volta gli stessi giornali. Qualcuno ti poteva anche guardare felice. Qualcuno poteva anche permettersi un pò di libertà.

Ma continuo ancora a non incrociare sguardi, ci provo, magari un sorriso, un cenno, ma la ragazza OpenJob non danno segni di vita. 


Il ragno

Stazionava sul soffitto il ragno, enorme! Si muoveva a piccoli scatti minacciosi. Prima in orizzontale capovolto, poi in verticale, sulla parete. Non vedevo la ragnatela , ma c’era, sono sicuro che c’era.

Su quel letto avevo sofferto tanto, il ragno lo sapeva, sapeva che lì ero debole, indifeso, li mi poteva soffocare. Lì non l’avevo mai fatto entrare.

Ecco un altro scatto! Si avvicina, vedo i denti, acuminati, simmetrici, probabilmente mi morderà.

Il cuore batte veloce, lo guardo, ma rimane fermo. Vorrei che si muovesse, che arrivasse veloce da me, ho paura, ma lo vorrei qui, lo vorrei sentire sulla pancia. Resterò immobile, lo giuro, resterò sempre immobile, lo giuro.

Mi avvolgerà nella sua ragnatela, diventerò bianco, filamentoso, complicato. 

Mi accantonerà come ha fatto mio padre, non ha sentimenti il ragno, ti vuole lì, ha bisogno che tu sia lì, ha bisogno di sapere che può mangiarti in qualsiasi momento.

Il ragno è indifferente ai tuoi lamenti. 

Scatta ancora, è a metà della parete, mi sembra più piccolo. 

Più diventa piccolo e più divento grande. Mi sento gonfio, ho come la sensazione di avere qualcosa in bocca, che me la riempie, che mi soffoca. Ho bisogno di quella sensazione, ho bisogno di trasgredire, non so fare l’amore. 

Ha fatto un altro scatto, sono stremato, non lo vedo più. Si starà nascondendo, per sferrare il suo ultimo micidiale attacco. Lo voglio, non resisto, voglio sentirmi libero da quella bestia. Non vederlo mi angoscia, ciò che non conosco mi angoscia. Sento un dolore allo stomaco, lo sento da molto tempo, sento uno spasmo, come gli scatti del ragno, forse l’ho mangiato, forse è nella mia pancia, o forse sono io.   


Pensieri confusi

Non sei in grado di guidare un furgone! Con quello sguardo canuto, con la rabbia della tensione, con la smania paterna di soldi e potere.

Quella volta Vinicio sapeva bene dove fosse. Era in piazza Guido Gerla, alla confluenza con via Dogana, via Marzi e via Ribolda. L’immagine dell’intersezione era chiara. In via Ribolda c’era uno spazio indefinito. I rivestimenti erano marroni, in un materiale ferreo, con dei ripiani vuoti. Confinava con una stanza buia delimitata da un portale chiuso soltanto da un telo di plastica trasparente. Ma ebbe paura ad entrarci. La percepiva come il suo lato oscuro, quello che di se non voleva vedere. Non ricordava cosa ci facesse la dentro. 

Ricorda solo di essere andato oltre. Lì un tempo c’era una palestra, adesso un negozio strano, non si capiva bene cosa vendesse. Era esattamente come prima, con la stanza sulla sinistra delimitata da una sbarra di ferro per la danza, e il pavimento in parquet. Era vissuta da personaggi strani che giravano in tondo, apparentemente senza un motivo. Improvvisamente uno di loro usci dal cerchio, era nudo, e bloccò Vinicio a una colonna a base circolare. Aveva un membro enorme che, rigido, oscillava da destra verso sinistra. Vinicio se lo sentiva sbattere sulle gambe, come se ce lo avesse in bocca. La sensazione di violenza era sempre la stessa, quella provata tante altre volte, ma come tutte le altre volte riusci a divincolarsi, e a fuggire giù per le scale.

C’erano delle stanze con le pareti a vetro, dietro le persone giocavano, ma il gioco non riusciva a capirlo. Una donna improvvisamente gli si parò davanti, aveva i pantaloni neri aderenti, lucidi. Il seno era nudo solcato da una cicatrice fresca che le tagliava in orizzontale il petto, dove aveva tatuato un pesce verde, stilizzato. Non le disse nulla, lo guardò soltanto. Nel bagno adiacente gli sembrò di pisciare sangue, ma avvicinato lo sguardo si accorse che sulla cappella c’erano tre buchi e il sangue usciva solo da quello centrale. Si tranquillizzò. 

Clara è stata il suo unico grande amore. Si perdeva nei suoi occhi celesti contornati da quegli occhiali che sembravano non avere forma. Quando era con lei nessun essere umano esisteva, esisteva solo lei, con il suo seno gonfio, perfetto, la sua pelle chiara e i suoi nei perfette costellazioni. Ricorda dei mesi bellissimi, dove non riuscì mai a farci l’amore. Molte volte ci provò, ma sempre fallì. Nel momento esatto in cui provava a penetrarla il suo pene si accartocciava su se stesso, come Pinocchio unito dai fili, quando da piccolo pigiava il pulsante sotto il piedistallo. Era lo stesso anche il senso di morte. I loro corpi erano bellissimi, spesso si specchiavano nudi nell’armadio, ma non c’era consapevolezza della carne, della forma. Il ricordo è vago, lei era ricca e religiosa. Aveva abbandonato il piano Jazz, per non drogarsi diceva. Il vizio atroce della felicità è il risveglio della consapevolezza e del passaggio, e di esserlo, di passaggio. L’unica condanna è il ricordo assente della forma dei suoi piedi. La rivide molto tempo dopo, era sempre splendida, girovagava in una casa anch’essa indefinita, lui provava a rincorrerla, a baciarla, ma non ci riusciva, fin quando sentì un dolore forte al petto, sempre lo stesso, che immobile, lo costrinse a guardarla fuggire, con le mani a divaricar le natiche e a far veder uscire se stessa.  


Dino la vide

Faceva caldo in quell’estate spagnola, era il  5 luglio del 1982, Barcellona, stadio Sarrià. I numeri andavano ancora da l’uno all’undici. Dentro o fuori, una sola possibilità, la vittoria. Finale anticipata dicevano, e così fu. Il genio delle opportunità ne fece tre, spezzati solo dallo spostamento d’aria di Falcão e dal primo palo del Dio filosofo. Bruno e il Mediano in barriera di vita, Nando raccontava il sogno con la solita misurata emozione. Eder poggiò il pallone guardando al centro, l’arbitro si allontanò, le ombre andavano a est. Corner corto in gergo, pericolosissimo. Dino distribuiva i compagni, era il capitano, forse l’ultimo, vero. Il sinistro di Eder toccò  perfetto la sfera, parabola aurea, bellezza e ragione del caos. Secondo palo, marcature saltate, giallo e azzurro si mischiano fino allo spunto di quella testa colma di chi sa quali pensieri. Nando sbagliò, non Paolo Isidoro, ma Leandro. Il colpo è perfetto, come il silenzio di quel tragitto infinito.

Rosso sangue i palmi, intrisi di saliva, Dino la vide, non c’è altra ragione, la vide. La vide la bestia, la vide l’istinto, vide la fine, ma non la fece entrare. La blocca, ma non basta. Impercettibile il rotolio, ma dritto allo stomaco, che sperava già di esser salvo. Dino la vide ancora, Dino la fermò, la fermò su quella linea di vita, o di morte metafora. Verde-Oro le maglie, come l’abbaglio, chiedono il varco. Il varco non c’era, per pochi centimetri, ma non c’era. Dino disse al Mondo di no, il Mondo non poté far altro che annuire. Un piccolo rimbalzo sull’erba, poi con le mani al terzino, con le braccia un flottare di ali, andiamo avanti, non è finita. 


Il racconto sul frigorifero vuoto con un pomodoro rosso che non scriverò mai

Mi sono svegliato alle dieci, pieno di dolori. Il servizio da cameriere della sera precedente è stato pesante, non come il desiderio che tutte le persone del mondo sparissero in un istante. Guccio dorme, è il mio gatto, gli voglio molto bene. Scendo incerto le scale e vado in bagno a lavarmi il viso e i denti con lo spazzolino elettrico, forzo molto nel profondo, è lì che si nascondono i batteri. Prendo un Nimesulide DOC generico a stomaco vuoto, come tutti i giorni da tre mesi, ed esco di casa. Il sole brucia, si sta meglio, ma brucia. Vago in diagonale verso il Vecchio Bar Bini, entro e prendo la solita ciambella glassata. C’è Margherita. Mi fa una carezza, cerco di vederla, ma non la vedo, lei se ne accorge. Mi vuole pagare la colazione, ma non voglio, voglio pagarla io. Emilio e Lorenzo si attardano a chiacchierare con una ragazza molto carina, che mi piace, ha un vestito nero lungo, smanicato, una Panda bianca e uno sguardo molto dolce, mi guarda anche lei, ma per caso. M’innervosisco perché voglio pagare velocemente, ma sbaglio. Margherita mi sta aspettando sulla soglia, come sempre del resto. Esco dal bar e il sole brucia, si sta meglio, ma brucia. Mi siedo sul muretto, sotto il solito albero, a fumare una sigaretta. Margherita deve andare ad aprire la libreria, io rimango lì ad aspettare che accada qualcosa. Mi ha parlato di una scuola e dello scrittore che la gestisce. Mi ha detto che fanno scrittura creativa, che ti può dire “apri il frigorifero, c’è solo un pomodoro rosso. Scrivici un racconto”. Realizzo il fastidio che mi pervade quando sento quella parola o sento qualcuno che si definisce creativo. Penso che un pomodoro rosso in un frigo vuoto sia uno spunto, penso che quando tornerò a casa ci scriverò un racconto, ma capisco subito che non lo farò.

Vicino a me c’è una porta bianca, buttata lì da qualcuno che pensa che il mondo sia una pattumiera. Non si potrà mai più aprire, mi dispiace. La vorrei prendere per restaurarla e farci una scrivania, ma è troppo pesante e troppo rovinata, non so come fare, mi sento solo e rinuncio.

Camminando cerco l’ombra. Non so che fare, penso che oggi, due agosto 2019, sarebbe un buon giorno per morire, poi mi ricordo che è l’anniversario del matrimonio di Sabrina e Uba e mi dispiacerebbe far coincidere le due cose.

Decido di mangiare, di farlo al bar Cirisiamo che ha anche una parte ristorante che si chiama Rieccoci. Ci vanno molti empolesi “bene”. Una schiacciata col tonno, maionese e pomodoro attira la mia attenzione, me la serve il barista brasiliano, molto gentile. Da bere prendo una bottiglia di acqua naturale da mezzo litro, chiedo anche un bicchiere di vetro e un tovagliolo in più, perché la maionese mi unge la barba. Fuori i tavolini sono quasi tutti liberi, c’è soltanto un signore di mezza età seduto sotto il gazebo, ma è una compagnia troppo ingombrante. Mi siedo al tavolino che istintivamente mi sembra più confortevole, di quelli alti che adoro. La schiacciata è piena di tonno, esce dai lati e mi casca sul tovagliolo, lo tolgo subito per paura che, sporco, sia poi inutilizzabile. Mangiai una schiacciata simile tempo fà ad un bar su viale Talenti a Firenze, anche in quella c’era il tonno. Ebbi una intossicazione da istamina, detta anche “sindrome sgombroica” e subito ho il terrore che mi succeda di nuovo. Prima del primo morso arriva Rossana e il suo sorriso. Parliamo del più e del meno, mi dice che andrà a Marsa Alam e che ha fissato il pranzo con Liù, che arriva qualche minuto dopo. Mi chiede come sto e le dico che sono molto stanco per il lavoro da cameriere, mi chiede se mi frustano, le rispondo: magari. La schiacciata era molto buona, so che avrò qualche problema a digerire il lievito, ma anche che sarà una cosa passeggera. Vado a pagare con la carta, quattro euro, è una cifra giusta per un pranzo. Appena esco faccio l’accesso alla home banking e vedo che dei sessantasette euro che possedevo il totale è sceso a sessantatré. Cammino cercando sempre l’ombra e capisco che lo faccio da tutta la vita.

Vado al bar Centrale a prendere il caffè e comprare le sigarette. Con un pacchetto di Chesterfield Blu sono sei euro, mi piace molto quando il totale torna preciso e pago in contanti. Dico alla ragazza più bassa che lo vorrei un pò più basso, mi chiede se va bene, le dico che è perfetto, ne è felice. Sempre in ombra prendo via Ridolfi e poi via del Giglio, c’è poca gente. Noto solamente una signora russa che da sola cerca faticosamente di masticare una pizza a taglio di Tal Dei Tali.

Curvo in Canto degli Zolfanelli. A metà c’è un negozio che vende cibo etnico. Sulla soglia sono seduti due ragazzi di colore con davanti una bicicletta nera marca Bianchi. Lo trovo divertente e un tempo avrei pensato che sarebbe stata una buona fotografia, non adesso però, sono più sofisticato. La banalità è attraente, come tutto ciò che ci distrugge. 

In via Leonardo da Vinci incrocio di nuovo una ragazza che ha fatto il giro inverso, sta mangiando un gelato, ha il cono tutto dentro la bocca, come se fosse un pene. Con le mani è impegnata a cercare qualcosa dentro la borsa che non troverà mai. Cammina, come tante, con lo sguardo basso. Allora penso che oggi, due agosto 2019, sarebbe un buon giorno per morire, poi mi ricordo di nuovo che è l’anniversario del matrimonio di Sabrina e Uba e che mi dispiacerebbe far coincidere le due cose.   


Son sincero

La domenica non è andata come credevo.

Le illusioni generano delusioni. Le illusioni non esistono, sono generate col solo scopo di rendere più dolce l’attesa del vuoto. Sono sempre un cleptomane bambino che tenta invano d’impennare la sua pesante bicicletta, con quel senso d’impotenza che materializza la perenne sconfitta gravitazionale.

Non so che fare, il risveglio dopo aver lavorato fino a tardi nel disagio è come sempre difficile. Decido senza tanta convinzione di andare a Ruen, in Francia nel 1945, per cercare lavoro. L’atmosfera à cupa, ma non m’inquieta. Vedo tutto, è la mia condanna, ma improvvisamente mi folgora una scena, è piena di armonia e bellezza. Tutto è al posto giusto, magicamente disposto. I tetti delle fabbriche geometrie perfette, le persone si scambiano i volti fino a diventare sagome scure. Un treno a vapore viaggia su binari incerti. Alcuni si uniscono, altri non s’incontreranno mai. In basso una donna mi guarda come sempre, con il sospetto e la paura di essere scoperta.

Mi si avvicina una ragazza giovane, dai lineamenti orientali, che mi accoglie con uno sguardo gentile. Senza indugiare le chiedo se posso catturare quell’immagine. Lei mi dice che non è possibile, che quell’immagine è stata già catturata da Werner, lo svizzero. La Svizzera mi evoca tristezza, follie, punte di genio e Arnold Böcklin.

“Ne puoi solo godere” mi dice. “Mi amputerei un braccio per averla” le dico io, “quello sinistro, non mi ci sono neanche mai masturbato, ho provato, ma con il solo risultato di amplificare il mio senso di stupidità”. “Non perdere mai la dignità”. Ribatte lei. “È difficile piantare un chiodo con un braccio solo. Devi avere pazienza, impugna il tuo sollievo e non smettere mai di sognare”. “Usa la bellezza per riconoscerla”. 

Me ne andai con uno strano senso di sollievo, ma non trovai lavoro.