La donna paragone

L’aratro tagliava come un rasoio la pancia,

l’odio materno e le vere illusioni.

Il mulo calpesta la sua faccia carina

con gli occhi cinesi ed i ciuffi damasco.

Ritorna il ricordo d’infanzia del nulla

bagnata da fiumi di rossa speranza.

Una nave nel largo diventa più grande

entra nel porto con aiuti insperati.

L’uomo più grosso muoveva il bacino,

l’orecchio staccato e le smorfie del vuoto.

Era sempre più bella come nonna materna.

Le viene un sorriso, lo accoglie piangendo.


Il cane nero

Il cancello suo verde era pura discesa

lo varco sicuro cercando una presa

mi volto veloce, una cane li, atroce,

mi guarda diretto e corre veloce

paura, terrore, del suo morso e livore

sparisce alla vista cambiando colore

il mio cuore impazzisce, non trovo riparo,

stupito, smarrito, ascolto uno sparo

lo sparo dell’arma che toglie la vita

lo sparo sollievo per farla finita. 


Diana

Ho visto stupore e il suo corpo ideale, disteso sinuoso su strade assassine.

Dietro a cancelli che varco da sempre, con porte socchiuse da luci soffuse.

Sognai di toccarlo, lo feci infinito, con dolci carezze su eterni dolori. 

Lividi neri e putridi laghi, con sangue sgorgato da tagli di lama.

Ho avuto la gioia di baciarle le labbra, la foga e il furore del tempo che sfugge.

Capelli di fieno, rogo di streghe, con piedi affilati a squarciarmi le crepe.

Ho visto quel letto lieve e scomposto, luogo infernale di tetro candore.

Son morto e rinato, miliardi di volte, in perenne silenzio, senza fare domande.

Lui non parlava, lucente giardino, di angelo solo sicura dimora.

Ho sceso le scale con fatica di sempre, con viva illusione che tutto finisce.

Parole casuali a lenire l’attesa, perfetto nel caos del mio luogo comune.

Immenso soggiorno, campo di grano, sogno il possesso, profondo e sovrano.

È vivo il ritorno del senso sbagliato, dei giorni perduti a riprenderne il fiato.

Quei giorni vissuti col senso di spreco, profondi tracciati da errore perenne.

Trovo macerie presenti e passate, invoco il coraggio e due braccia dorate.


Furia

Vaghi sola in bicicletta

senza meta, sola fretta.

Sogni amanti, soldi e strilli

bucan carni come spilli.

Donna sola e opportunista 

oca, stupida, affarista.

Vaghi in cerca di conforto

gozzo vecchio senza porto.

Senti il tempo che svanisce

accerchiata dalle bisce.

Come loro cambi pelle

raccontandoti novelle.

Fermi l’uno, fermi l’altra

ammaliante, furba e scaltra,

peso e putrido fardello

della vita, tu, zimbello.


Mégaira

Tu vecchia megera, costante straniera 

costante ferita, figura sbiadita

dovevi la guida, precisa impaurita.

La mano sul fuoco, tremendo dolore

voltasti lo sguardo col gelo nel cuore

davi la mancia perché non sapevi

dare l’affetto che non conoscevi

mai una risata, mai un sorriso

solo rimproveri e il nulla sul viso.

Vagavo smarrito, ghiaia e cemento

guardavo le palme frustate dal vento

di te non ricordo un momento felice

rinchiusa tra i muri di vecchia vernice

donna mai nata, inutile attrice.


Una quarantena all’inferno

Mi volto a guardare, non vedo mai il mare, dove nuotare, dove affogare, sento cantare, Sirene maligne, che portano vento fetore di fogne.

A veder banale bastano gli occhi, che vedono sciocchi, vedono fiocchi, quelli di neve, vani poeti, toccano terra e diventan segreti.

La pace a me oscura, contro natura, di vita passata in cerca di cura, lei non esiste, se non nell’amore, che bramo da sempre, che sento terrore.

Adesso nel buio non trovo la luce, solo il tormento littorio di un Duce, che porta la guerra, che scuote la terra, cosparsa di funi di rosee budella.

Non so cosa fare, provo a remare, provo a scopare, provo a fallire.

M’incastro, mi castro, nel liquido emblema, di un rosso disastro, di un corpo che trema.

Mi sbraccio agitato, senza pensare, affogo nel fango, mi faccio abusare.  

Non v’è più ritorno da questo viaggio, scivolo goffo su laghi di ghiaccio.

Bianca e insicura, traspare la fine, mi sembra uno specchio, vedo rovine, sommerse da secoli e ire divine, futili resti, sontuose vetrine.  


Linda

Pelle bianca come lindo lenzuolo

sguardo di rondine prossima al volo.

Lustrini e paillettes, cornici argentate

sicure custodi di cosce inviolate.

Mi guardi curiosa, mi sento straniero

antico gitano che balla il bolero.

T’invidio la vita, il tempo rimasto

tranquilla purezza, l’incedere casto.

Imbocchi il giardino, annusi gli odori

ti godi il mistero, l’ignoto, gli amori.

Desìo innocente sapere il tuo nome

matura coscienza, vergine addome.

Adulta l’invidia di tempi rimossi

ricordi distrutti da Rodi colossi. 

Fanciullo perduto nel bosco più nero

del mare in tempesta perenne prodiero.


Donna vip

Vivi chic

scatta il click

prendi il cric

rabbia e tic

vai nel trip.

Never vip

only spit.


Bomba a orologeria

Tic tac, tic tac

la mia anima fa crac

l’uomo nero arriva in frac

schiaccia l’essere col track

cristallizzo come il crack

mentre affogo nel cognac

l’esistenza patatrac 

Tic tac, tic tac.


Gestalt

Statua bianca secca e stanca

seno vuoto, luogo ignoto. 

Sposa fallita, storia sbiadita

madre visione, madre finzione.

Viva apparenza, vaga l’assenza 

finge innocenza, sputa sentenza.

Preda inseguita, preda lontana

fiume senz’acqua, secca fontana.

Inconscio mio brutto, psiche malata

rosso rossetto, bocca baciata.

Desidero ancora, insiste la colpa

di sogni malati, coagula polpa.

Amo da troppo il desiderio sbagliato

lo amo da sempre, assurdo vagare

eterno rapace sul fondo del mare. 


Il cliente

Spocchiosa l’entrata, con sguardo affamato

superbo di se e del suo fare malato

ti guarda impaziente in attesa di un posto

bramoso di cibo e sprezzante del costo

quel costo elevato, quel costo insensato

che crede, ottuso, di aver meritato

è un uomo malvagio, banale ignoranza

ti guarda, non vede, niente sostanza

si mette seduto, ti guarda dall’alto

di culto del nulla, livello d’asfalto

mangia del crudo, che per lui è la vita 

si alza satollo di morte ingerita.

Esce veloce, entrando nel nulla

vedendo nel buio effimera culla.

La macchina grassa, sicuro rifugio

ignaro l’accende senza minimo indugio.

D’un tratto le spine, punte impietose

rovo di vita, amanti sinuose

bucano gli occhi, lo rendono cieco

del fare malato, del vivere spreco.